La “bunàca”: la secolare salvezza dei contadini contro il meteo avverso
Chi ha mai lavorato nei campi, o conosce qualcuno che opera a stretto contatto con la terra, lo sa: le condizioni atmosferiche possono mettere a dura prova l’impegno, la fatica e le energie di chiunque, in particolare quando arrivano i primi freddi e il vento, la pioggia, le grandinate e la neve cominciano a farsi sentire.
Perfino in una regione notoriamente mite e soleggiata come la Sicilia, nei secoli, l’attività del contadino si è dovuta interfacciare con un clima non sempre favorevole, motivo per cui i più accorti provvedevano il prima possibile a procurarsi una buona copertura per i periodi più avversi dell’anno.
Fra queste, considerando le parole ancora oggi sopravvissute allo scorrere del tempo e a un radicale cambiamento delle nostre vite quotidiane, non possiamo non menzionare per esempio la bunàca, appellativo dialettale con cui la popolazione era solita definire la giacca di panno ruvido che spesso si indossava – in Sicilia e altrove – già a partire dall’autunno.
In realtà, pur trattandosi di una alleata utile e resistente nei mesi più gelidi, della bunàca ci si serviva anche in piena estate, quando si cercava comunque riparo e sollievo dalla canicola e non si voleva lavorare a torso nudo, evitando così ustioni e altri danni causati da una costante e diretta esposizione solare.
È così che la bunàca è entrata a far parte dell’iconografia del contadino, nonché del suo lessico familiare, imponendosi come un termine – nonché un indumento – imprescindibile in gran parte dell’isola, le cui radici etimologiche sono da rintracciare addirittura nel mondo antico.
Sì, perché questa giacca, spesso cucita a mano e sfruttata ben oltre l’immaginabile, finché il tessuto lo rendeva possibile, dovrebbe il suo nome siculo alla lingua parlata sull’isola durante la dominazione greca e deriverebbe dal sostantivo nake, che un tempo definiva tutto ciò che si otteneva dalla lana di pecora.
Una parola che a sua volta indicava anche la vasca in cui il lino veniva macerato, e che è poi rimasto nella Trinacria evolvendosi e trasformandosi, fino a configurarsi al giorno d’oggi come un elemento imprescindibile del patrimonio socioculturale locale.