Quando un bambino torna a casa dopo aver giocato nel quartiere, o aver avuto lezione di Educazione fisica a scuola, è probabile che abbia i pantaloni strappati, la maglietta stropicciata, o anche solo i lacci delle scarpe macchiati.

Una tendenza dopotutto molto diffusa durante l’infanzia, che se fa divertire e sorridere i più piccoli porta spesso i genitori, al contrario, a fare i conti con un livello variabile di sporcizia da ripulire – o, in Sicilia, di lurdìa. Nell’isola, infatti, chi ha un aspetto sporco e trasandato non è lercio, bensì, lurdu (o lurda, al femminile), termine che forse suona familiare a chi conosce la voce italiana lordo, ormai desueta in molte regioni o considerata comunque piuttosto aulica.

Nella Trinacria è diverso, dal momento che lurdu è un aggettivo molto comune nel dialetto locale, e che oltre a riferirsi al sudiciume può diventare sinonimo di parole come corrotto, impuro o addirittura vizioso, idealmente legate tutte alla poca pulizia fisica o morale dell’individuo.

La sua etimologia, invece, è uguale a quella del lemma italiano, avendo a che fare a propria volta con il latino luridus, poi tramutatosi nella forma parlata lurdus. L’aggettivo derivava ancora prima da luror, -oris, che in epoca classica voleva dire di colore giallo-verdastro, e che con il tempo aveva invece preso a significare pallido, livido, smorto.

A livello figurato, infatti, alcune fonti riportano già in latino alcune accezioni di luridus quali sordido o storpio, probabilmente derivate da una connotazione negativa di livido da intendersi come immondo e maligno. Come che sia, suscita ancora oggi una certa curiosità il percorso linguistico e concettuale che ha portato una sfumatura cromatica a sbiancare sempre di più, per poi essere associata a tutto l’opposto della pulizia e del candore.

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