“T’immucchi quattru”: quando il dialetto siciliano diventa pubblicità virale
Se l’avete visto, non l’avrete dimenticato: nel 2020 in Sicilia è apparso un cartellone pubblicitario di una storica azienda locale di specialità dolciarie con la celeberrima frase in dialetto «T’immùcchi quattru». La campagna, che è diventata subito virale e che ha conquistato e divertito migliaia di siciliani, è stata considerata un vero e proprio case study, dato che ha collegato un’espressione idiomatica alla goliardia della parlata sicula.
Se non avete familiarità con il dialetto, però, o se non ne conoscete a menadito tutte le sfumature, è probabile che vi stiate chiedendo cosa significhi questa espressione metaforica, che in senso letterale potremmo tradurre con Te ne mangi quattro, ma che per riferimenti e allusioni va ben al di là di questo.
Ebbene: si tratta di un sintagma tipico soprattutto del catanese, volto a sottolineare beffardamente la vanagloria del nostro interlocutore e a suggerirgli di darsi meno arie, il più delle volte perché il motivo di tanta soddisfazione è in realtà inesistente, irrilevante, oppure fastidiosa. Quanto alla sua origine, o all’entità di queste fantomatiche quattro cose da mangiare, la faccenda è più complicata.
La quantità è certamente da ricollegare all’antica abitudine nella Trinacria di usare un sistema di numerazione a base quattro, come accadeva anche in Nord America e prima ancora in India. Il cibo dello sbruffone, invece, potrebbe coincidere con i quattro elementi naturali, a significare che con la sua superbia avrebbe divorato l’intero universo; oppure, se pensiamo all’associazione di Pitagora tra il 4 e i concetti di realtà e concretezza, potrebbe essere un invito a tornare appunto coi piedi per terra.
Secondo un’ipotesi ancora più curiosa, invece, dovremmo considerare che un tempo le bare dei defunti erano trasportate da quattro becchini e che l’area dei cimiteri corrispondeva a quattro tummìna (cioè tumuli): l’esclamazione, allora, potrebbe equivalere a un’esortazione a tacere prima di fare una brutta fine, con una minaccia più o meno velata e più o meno scanzonata, in base alla circostanza specifica.
Quale che sia la verità, il detto rimane tipico della lingua etnea (e non solo), e ha contribuito a portare le varianti di tortina più sperimentali sulla tavola di molti siciliani.