Veniva ricavata da una biglia più sfilata da un lato e alla cui estremità veniva infilato un chiodo con la testa sporgente verso l’esterno, che dal punto di vista etimologico è da fare risalire alla stessa radice della parola “tùppu” e veniva usata sia per partite di coppia che di gruppo

Oggi riscopriamo un gioco diffuso in Sicilia nel secolo scorso, che nei lunghi pomeriggi di bel tempo permetteva di trascorrere per strada o nelle piazze tante ore in compagnia. Parliamo di uno dei più conosciuti, in comune per di più con molte altre regioni italiane, ovvero il gioco del tuppètturu o tuppèttu, in alcune aree noto anche come strùmmula.

Si trattava di una trottola di legno ricavata nei primi tempi da una biglia più sfilata da un lato e alla cui estremità veniva infilato un chiodo, con la testa sporgente verso l’esterno. Dal punto di vista etimologico, il sostantivo è da fare risalire alla stessa radice di tuppu, inteso come arnese di forma sporgente e rotondeggiante. Va detto, però, che a seconda delle dimensioni, l’oggetto poteva cambiare nome ed essere chiamato paparazza (antitraccia), paparedda, tuppètturu, tuppètturu lìsinu (trottola leggera) o, nel caso in cui non fosse stato più grande di una susina, ciancianedda (campanellina).

A prescindere dalle sfumature, ogni tuppètturu aveva comunque un lungo filo di spago intrecciato intorno alla testa del chiodo, che veniva poi avvolto intorno al collo della trottola. Il gioco cominciava nel momento in cui qualcuno chiedeva ai compagni «Cu puttau ‘u tuppètturu?» (cioè, chi ha con sé la trottola?) e la comitiva estraeva di tasca il giocattolo. Si potevano fare partite di coppia come di gruppo, che differivano fra loro per alcune regole. Nella prima variante, i due sfidanti tiravano ‘a lazzata, tenendo lo spago fra due dita e lanciando con forza la trottola per terra, che cominciava a ruotare sulla punta di ferro del chiodo. A vincere, naturalmente, era chi riusciva a fare compiere al tuppètturu più giri su sé stesso.

Se si voleva giocare tutti insieme nello stesso momento, invece, una conta designava lo sfortunato che avrebbe dovuto collocare la trottola per terra, mentre gli avversari avevano il compito di lanciare la spropria cercando di colpire il tuppètturu fermo durante la rotazione. In ogni caso, il pegno di chi perdeva erano le pizzàte, un numero di colpi stabiliti a maggioranza che gli altri potevano dare alla trottola del perdente, con l’obiettivo di incrinarne la superficie per limitare le possibilità di una futura vittoria contro gli amici. Ci avete giocato anche voi, almeno una volta?

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