Se, alla fine di un lauto pranzo consumato in Sicilia, vi è capitato di sentirvi offrire a casa o al ristorante uno zibìbbu (o zibìbbo, nella sua versione italianizzata), è probabile che vi siate trovati in difficoltà, non sapendo di preciso a quali conseguenze vi avrebbe condotto una vostra risposta affermativa.

Ebbene: se amate gli alcolici da dessert, che accompagnano con il loro sapore aromatico e dolce una buona fetta di torta, sappiate che accettare un bicchiere di questo vino è sempre una buona idea. Si tratta, infatti, di una bevanda color paglierino, prodotta soprattutto in provincia di Siracusa e di Trapani a partire dall’uva di un particolare tipo di vitigno moscato, che sull’isola viene considerata una vera e propria coccola per il palato.

Il pregiato vitigno, conosciuto anche come moscato di Alessandria, moscato di Spagna, moscatellone e salamanna, è molto presente anche nell’area fra Erice e Mazara del Vallo e soprattutto a Pantelleria, dove i suoi chicchi vengono inoltre mangiati quando sono ancora freschi o, dopo essere stati fatti appassire, per preparare delle raffinate ricette di pasticceria esportate nel resto d’Italia.

Non a caso, l’origine di questo curioso sostantivo viene dalla parola zabīb (زبيب), che significa per l’appunto uva passa o uvetta: inizialmente famoso in Egitto, lo zibìbbu venne esportato nella Trinacria durante la dominazione araba e coltivato in dei terrazzamenti che avevano delle peculiarità tramandate con cura fino ai nostri giorni.

Oggi, quindi, con il termine zibìbbu ci si riferisce in realtà a più di un’eccellenza sicula, dalla varietà d’uva al vino Zibibbo IGT, passando per il moscato e il passito di Pantelleria, per l’Erice vendemmia tardiva Zibibbo e per l’uva passa di fine pasto, tutti derivati comunque da una pratica agricola diventata a buon diritto patrimonio immateriale dell’umanità nel 2014.

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