C’è una parola, nel dialetto siciliano, che pur nella sua vaghezza e approssimazione formale riesce a evocare con precisione la sensazione di un momento che è sì già trascorso, ma da un tempo così impercettibile da sembrare ancora quasi tangibile, vicinissimo a chi sta parlando.

Ci riferiamo all’avverbio antura, più raramente trovato scritto anche ant’ura, e che troviamo già nel vocabolario siciliano dell’abate Michele Pasqualino, a dimostrazione del fatto che si tratta di un termine non solo ampiamente utilizzato ancora oggi, ma che affonda le sue radici in un passato ormai antichissimo.

La sua origine, infatti, sarebbe riconducibile addirittura all’espressione latina ante horam, che in maniera letterale potremmo tradurre come prima di un’ora, in un lasso di tempo antecedente all’ora.

Trasformatosi poi in un lemma che nella maggior parte dei casi rimane univerbato, antura mantiene quindi la sua sfumatura di significato originaria, designando ai nostri giorni un breve intervallo che per l’appunto non supera in genere i sessanta minuti, e che quindi corrisponderebbe per sommi capi all’italiano poco fa.

Fermarci a questa apparente corrispondenza con la nostra lingua nazionale, però, sarebbe piuttosto riduttivo, perché se è vero che potremmo rendere in certi contesti antura con da poco, è altrettanto vero che in altri casi il senso è piuttosto quello di un evento svoltosi or ora, o di un’azione che pur essendosi già conclusa continua ad avere delle ripercussioni nel presente.

Si tratta, in altre parole, di un’unità di misura variabile, eppure avente sempre a che fare con il legame fra ciò che è già successo e ciò che si sta ancora verificando, in una sorta di limbo fugace fra quanto possiamo ancora cambiare e quanto, invece, non ci è più possibile modificare in alcun modo, pur avendo l’impressione che si stia ancora verificando sotto i nostri occhi.

Antura, insomma, rende perfettamente il concetto greco di kairós, personificato da un fanciullo alato che si poggia sopra una sfera tenendo in mano un rasoio, sul quale oscilla una bilancia. Resta sospeso per un solo istante in equilibrio, dopodiché torna a librarsi nel cielo spiegando le ali, senza poter essere più acciuffato dall’uomo che vorrebbe, invece, trattenere quel tempo un po’ più a lungo con sé.

Un avverbio ricco di fascino e di suggestioni, dunque, che ben descrive l’animo poetico del popolo siciliano e la capacità di quest’ultimo di raccontare la realtà e perfino i fatti più quotidiani con un linguaggio evocativo.

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