Impacchettare male i regali. Cucinare senza dosare bene gli ingredienti. Rifare il letto lasciandolo, in realtà, tutto scunzàtu. Sono azioni alle quali assistiamo spesso nella vita quotidiana, che sia per nostra responsabilità o per quella di qualcuno che ci sta accanto, e che in siciliano potrebbero definirsi svolte tutte alla sanfasò.

La parola sanfasò, che alcuni scrivono separata pensando che San Fasò sia una qualche bizzarra figura del calendario cattolico, è infatti diffusa nell’intera regione da secoli, e viene utilizzata nella comunicazione quotidiana a prescindere dal registro linguistico e, quindi, dagli interlocutori e dai contesti in cui si parla.

Nonostante la sua fortuna, però, non è facilmente riconducibile alla sua origine da molti isolani, che tuttora si chiedono spesso da dove derivi e perché sia arrivata fino a loro da una dominazione probabilmente straniera. Ebbene: questa prima supposizione è esatta, se consideriamo che sanfasò affonda le proprie radici nel francese, parlato nella Trinacria fin dall’epoca delle conquiste angioine.

Più nello specifico, l’espressione sarebbe una storpiatura del fraseologismo sans façon, preceduto talvolta da à la (che potremmo tradurre come alla maniera di) e il cui significato corrisponde al nostro senza cerimonie, alla buona. In altri termini, si tratta di una maniera sofisticata (e diplomatica) per descrivere un gesto poco curato, sciatto o comunque approssimativo, che quindi non corrisponde ai criteri previsti.

In verità il sintagma è registrato anche nei dizionari di lingua italiana, come accade nel Treccani online, probabilmente comunque per tramite del dialetto siculo. La sua forma ibrida, con alla ormai addomesticato e sanfasò storpiato nell’ortografia, d’altronde, è registrata nell’isola da diversi secoli, e ancora oggi si trasmette senza sosta di generazione in generazione.

Se c’è una cosa che dunque i siciliani non fanno alla sanfasò è tramandare i propri detti, perpetuando la loro affascinante e imperitura contaminazione linguistica.

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