Molti testi in questa varietà linguistica sono esistiti e sono stati utilizzati per secoli, e l’idioma è stato in passato veicolo comunicativo ufficiale di alcune comunità di parlanti. Oggi, però, la situazione è cambiata e lo status dell’idioma isolano rimane controverso anche secondo le più importanti organizzazioni internazionali

Il dibattito sulla natura del siciliano è ancora aperto e coinvolge centri di ricerca ed enti pubblici e privati di ogni sorta. Da un lato, infatti, questo idioma ha una sintassi, una grammatica, una fonetica e un lessico a sé stanti rispetto all’italiano, come ogni lingua che si rispetti. Eppure, benché si tratti di una parlata sovraregionale (usata anche in certe aree della Calabria), attualmente è introvabile in testi scritti ufficiali di natura politico-giuridica, come accade invece per le lingue ufficiali, che sono insegnate a scuola e parlate negli uffici, nei tribunali e nella comunicazione massmediatica come veicolo di comunicazione primario.

La sua storia culturale e letteraria rende la questione ancora più delicata: molti testi in siciliano, in realtà, sono esisti e sono stati utilizzati per secoli, e il siciliano è stato in passato lingua ufficiale di alcune comunità di parlanti. Tuttavia, com’è accaduto a molte parlate dell’area italica dopo l’unificazione del 1860 e la fondazione del Regno del 1861 (e in molti casi parecchio prima), questo uso ormai è scomparso. Così, se è vero che in Sicilia non esiste un dialetto inteso come varietà derivante esclusivamente dall’italiano (poiché ha strati di origine latina, greco-bizantina, araba, normanna e spagnola), è pur vero che esiste un dialetto inteso come idioma contrapposto a un altro di dominio, rispetto al quale rimane in uno status di subordinazione di utilizzo.

La faccenda si complica ulteriormente se teniamo conto del fatto che l’International Organization for Standardization, la più importante organizzazione mondiale per la definizione di norme tecniche, ha attribuito un codice anche al siciliano (ISO 639-3 scn), cosa che avviene solo con le lingue e non con i dialetti. L’UNESCO stessa qualche anno fa ha riconosciuto il napoletano e il siciliano come lingue madri in pericolo d’estinzione, intese però esclusivamente come «lingue regionali o minoritarie […] che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato», stando a quanto chiarito dall’articolo 1 della Carta europea per le lingue regionali e minoritarie.

Di conseguenza, dare una definizione di siciliano è al momento quasi impossibile. Secondo il glottologo e dialettologo palermitano Giovanni Ruffino, primo linguista siciliano nominato accademico della Crusca nel 2017, il termine dialetto «sarebbe più appropriato», anche se nella sua accezione di «lingua» è ora presente nei menù a tendina dei più recenti smartphone. Quel che è certo è che rimane un idioma capito e parlato da molti, con una tradizione culturale ancora viva in molti ambiti; ha perso alcuni dei requisiti fondamentali che definiscono una lingua a tutti gli effetti, sebbene altri (anche sul piano strettamente tecnico) li abbia conservati. Ecco perché né l’una né l’altra definizione possono essere considerate al giorno d’oggi inappropriate o sbagliate.

Scriveva due secoli fa il filosofo e giurista tedesco Paul Yorck von Wartenburg, cogliendo l’essenza più profonda e più vera di questo idioma: «Il siciliano è il prodotto di un territorio che non è un pezzo staccato d’Italia, che non ha mai fatto parte di alcuna parte del mondo in epoca storica, che è stato occupato da nord, sud, est, ma mai è stato assimilato, l’isola in cui niente è stabile se non il movimento, il non-stabile, dove un giorno distrugge quanto l’altro giorno ha costruito, dove vulcanismo e nettunismo sono continuamente all’opera, dove un giorno trasforma la storia di secoli» e dove la stessa definizione di lingua o dialetto rimane appesa a un filo, pronta a essere smentita e poi riconfermata da un istante all’altro.

 

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