Anche a voi è capitato di confrontarvi con una persona che, dal punto di vista del comportamento, dimostra meno anni di quelli che sembrerebbe avere nella realtà? Anche voi avete trovato l’atteggiamento di un vostro conoscente infantile, fuori luogo, magari un po’ bambinesco? Allora conoscete già l’essenza di un aggettivo che, nel dialetto siciliano, continua a essere utilizzatissimo anche ai nostri giorni, e cioè pagghiòlu.

A servirsene sono soprattutto i centri abitati in provincia di Catania, che oltre a usarlo con la sfumatura appena descritta lo hanno esteso, nel corso del tempo, anche a persone più in generale nullafacenti, di quelle che «‘U jòrnu nun ni vògghiu e ‘a sira spàddu l’ògghiu», per capirci. Ma da dove deriva questo curioso sinonimo di addèvu, capace di trasformare un bamboccio in un vero e proprio buono a nulla?

Ebbene, a quanto pare in origine il pagghiòlu designava il secchio usato dai pescatori per svuotare la barca dall’acqua residua o per conservare i pesci che si erano appena procacciati, mentre in provincia di Enna – e più precisamente nel Comune di Valguarnera Caropepe – viene usato per illuminare la processione dedicata a Santa Lucia, festa patronale dalla quale per antonomasia è diventato un altro modo per definire alcuni tipi di fiaccole che illuminano i cortei.

Lì, infatti, questo fascio di inflorescenze circonda interamente un carrello di ferro, che con i suoi rami di ampelodesma (pianta conosciuta nella Trinacria anche con i nomi dialettali di ddìsi, liàma o bùje) intrecciati a formare una colonna alta un paio di metri, veniva portato in giro e trascinato da lungo tempo dalla famiglia dei La Cagnina.

Oggi dei torcioni simili, anche se più piccoli, sono tenuti in mano anche da molti altri fedeli, mentre del pagghiòlu originale continuano a occuparsi come da tradizione i bambini e i ragazzi, guarda caso arrivati poi per metonimia ad assumere una sfumatura diversa alle pendici dell’Etna…

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