Questi contributi sono parte di un dibattito scaturito dalla pubblicazione di una lettera aperta del rettore dell’Università di Catania, all’indomani di un tragico evento che ha coinvolto uno studente dell’Ateneo. In questo 2020 i più fragili tra di noi,  dentro e fuori il contesto universitario, rischiano di perdere la speranza nel futuro. Da dove ripartire?

I lettori possono intervenire con le loro lettere, che verranno pubblicate sul nostro sito, inviandole all’indirizzo redazione@sicilianpost.it

CI SONO IO CON ME… E CON TE

Giulia Grasso

«Da solo, nessuno può dirsi al sicuro», queste le parole che tra le altre mi hanno colpito di più della lettera aperta del rettore. Proprio questa la ragione per cui mi sono presa del tempo, per digerire e metabolizzare, in primis il fatto accaduto e poi tutte le opinioni, dei professori, di miei colleghi, di tante persone che in un momento così triste si uniscono in unico coro. Il dolore di uno diventa quello di tutti. Ma – la domanda che un corso seguito un paio di anni fa mi ha suscitato – è vero anche il contrario? La felicità è altrettanto contagiosa?

Alla mia domanda, tuttavia, lascio il punto interrogativo, e non voglio trovare risposta, in cuor mio la risposta sarebbe ovvia, ma purtroppo non sempre il traguardo, la vittoria degli altri è vista dai più in senso positivo. Le colpe le attribuisco alla nostra società competitiva che ha la pessima reputazione di aver fatto nascere dentro tutti noi, un sentimento malvagio come l’invidia che, però, emerge a causa di quello che vorrei definire – azzardando un po’ anche nel linguaggio – la scalata all’integrazione. Mi spiego meglio: tutto deve avvenire per tutti nello stesso modo, nello stesso tempo, con lo stesso valore, sennò ci sentiamo diversi, sennò ci sentiamo esclusi. Il problema più grande è che non sono sempre e solo gli altri a farci sentire “sbagliati” ma siamo noi stessi, il nemico più difficile da affrontare, e cediamo, poi, ad azioni disastrose, a cui purtroppo non possiamo porre rimedio.

Il mio “appello” alla comunità accademica sarebbe quello di intervenire proprio qui, di dare spazio non solo al confronto con gli altri, ma al confronto con noi stessi. Sarebbe interessante avere l’opportunità di uno sportello psicologico, o meglio di qualcuno con cui parlare, senza essere giudicato, senza che magari anche gli altri lo sappiamo, lontano dal nostro gruppo di appartenenza. Lo smarrimento intimo di cui parlava il rettore è anche e soprattutto smarrimento sociale, quando non ci troviamo in linea con “la scalata all’integrazione”, ci sentiamo inutili e persi, e proprio per questo sentimento di perdizione io vorrei combattere. Nessuno è perduto se si ha la certezza di avere una mano, a volte anche estranea, ma pronta a sostenerti, a non farti sentire sbagliato, a spiegarti che non sei un voto, che hai tempo. Perché a volte non basta che ce lo dicano i professori, o la famiglia, bisogna che il nostro io più intimo lo capisca, e per farlo sarebbe utile proiettarsi negli occhi di chi non ci conosce da sempre, ma ci capisse davvero, in tutte le piccole cose di cui abbiamo bisogno, che non sono mai banali.

Insieme, tutti possiamo essere al sicuro.


UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI SÉ STESSI

Vanessa Dumassi

Faccio un po’ di fatica a inserirmi nel dibattito scaturito dalla lettera aperta del rettore dell’università di Catania dopo l’episodio tragico che di fatto interessa tutti, me compresa, ma alla fine credo sia la cosa più giusta da fare proprio perché tutti noi studenti e studentesse siamo coinvolti in questo viaggio! 

Il suicidio di uno studente universitario è sicuramente una questione che fa riflettere tutti noi, ragazzi e ragazze, che investiamo il nostro tempo e le nostre forze nella formazione universitaria. Di fronte a tale notizia mi rendo conto di come tutto ci sta sfuggendo di mano. Forse a causa della competizione o, forse, a causa di tutto quello che le persone che ci circondano si aspettano da noi.

A prescindere da quali siano le cause quello che è opportuno fare oggi è “ri-educare” noi giovani all’amor proprio. Credo che rispettare i propri tempi sia esattamente una forma di amor proprio. Quello che dovremmo sempre tenere presente è che un voto non corrisponde al nostro valore, tantomeno alle nostre capacità. Il percorso universitario che intraprendiamo è un percorso di formazione, certamente, ma è anche un percorso di educazione e di crescita. Non dobbiamo essere competitivi, non dobbiamo essere i migliori, dobbiamo essere persone e ogni persona è diversa: per questo dobbiamo rispettare e accettare noi stessi.

Mi piace accostare a questa mia idea, maturata solamente al mio secondo anno di università, all’idea del tiempo anímico, concetto che spesso si incontra durante gli studi di letteratura spagnola. Il tiempo anímico è il tempo dell’anima, è il tempo soggettivo. Il tempo esiste davvero? Alla fine del nostro percorso di studi non conta quanto tempo “abbiamo perso” o quanto siamo stati veloci. Quello che conta è chi siamo diventati. L’università è un viaggio dentro noi stessi. Qualche tempo fa, durante un corso, il docente ci ha chiesto: “Cosa cercate quando studiate?” D’impeto allora risposi che cercavo di prendere il voto più alto che avrei potuto.  Oggi rispondo che cerco me stessa.


Il dibattito:

La fragilità al tempo della pandemia e la lettera aperta del rettore Priolo

Francesco Riggi: di fronte alla tragedia rilanciare l’Università come luogo di alleanza tra le generazioni

Lorenzo Rapisarda: solo i rapporti umani autentici ci sottraggono alla disperazione

Elena Ardita: Saper condividere può fare la differenza: solo così nessuno rimarrà indietro

Giuseppe Di Fazio: Insegnare non basta, dobbiamo prenderci cura dei nostri studenti

Alfonso Ruggiero: Vivere l’istante per costruire il futuro: la grande scommessa a cui siamo chiamati

Giulia Grasso e Vanessa Dumassi: Il tempo dell’Università e quello della nostra vita

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