In Sicilia, quando si vuole descrivere la stoltezza o l’ingenuità di qualcuno, si può ricorrere al termine babbo (di cui abbiamo già parlato nel dettaglio in questo articolo) o, in alternativa, optare per un aggettivo dialettale dall’origine se possibile ancora più curiosa.

Ci riferiamo alla parola mammalùccu, che è arrivata nella Trinacria secoli orsono a partire dall’arabo mamālīk (plurale di mamlūk, cioè posseduto, schiavo). I mammalùcchi, infatti, conosciuti in italiano anche come mameluchi, erano delle truppe di schiavi turchi convertiti alla religione islamica e costretti a militare nell’esercito, al servizio specialmente dei califfi abbasidi.

La loro esistenza era nota in tutto il Medioriente, e li vide diventare via via più potenti quando riuscirono a sostituire le dinastie dei loro padroni e ad acquisire una certa influenza sociopolitica sempre maggiore in Siria e in Egitto, almeno fino a quando non vennero sconfitti dall’armata di Napoleone.

Nonostante il loro lento riscatto, comunque, nell’immaginario collettivo la figura del mammalùccu rimase associata a quella di una persona costretta all’obbedienza, che quindi non era in grado di prendere decisioni autonome e che spesso si ritrovava a compiere azioni contrarie al buon senso o a un qualche vantaggio personale.

È così che, per estensione, il lemma mammalùccu ha gradualmente cominciato a designare non solo le persone stordite o sottomesse ad altre, ma pure quelle che non erano capaci di ragionare con la propria testa e che finivano senza volerlo per cacciarsi spesso nei guai, optando per delle scelte poco logiche o condivisibili.

Dare oggi del mammalùccu a qualcuno, di conseguenza, significa dubitare dei suoi ragionamenti e mettete più o meno bonariamente in discussione la sua intelligenza, spesso con quella stessa sfumatura di pietà o di commiserazione che tempo addietro doveva essere riservate alle milizie reclutate con la forza.

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