La storia del pitìttu, la voglia irresistibile di cibo (e non solo) dei siciliani
Sapevate che in siciliano, così come in molte culture mediterranee, le sfumature della parola desiderio possono essere numerose e multiformi? Di uno di loro, lo spìnnu, avevamo parlato in precedenza, mentre oggi ci dedichiamo al simpatico sostantivo allitterante pitìttu (o petìttu).
Per capirne l’etimologia, basta pensare a una delle sue svariate accezioni, ovvero quella di uno sfizio culinario. Se nella Trinacria si ha pitìttu di una granita con brioche a tùppu o di un arancino, infatti, è difficile che si riesca a resistere (in particolare, poi, considerando il loro ciàuru invitante)! Questo ci riporta a una parola della lingua latino che avrete già immaginato: appetitus. Sull’isola, quindi, il pitìttu può rappresentare proprio la voglia (spesso irrefrenabile) di mangiare una particolare prelibatezza.
Non a caso esiste l’espressione idiomatica smòviri lu pitìttu, cioè stuzzicare l’appetito, e non a caso agli inizi del Novecento «Sugnu schiavu di lu Pitìttu», dichiarava il poeta e comico palermitano Giuseppe Schiera (in arte Abballavirticchiu, che si esibiva in coppia con Muddichedda), alludendo alla fame che lo obbligava a preoccuparsi di guadagnarsi da vivere.
Proprio come nell’idioma da cui deriva, però, e come forse si intuisce già, le sfaccettature del pitìttu non si fermano qui. La sua valenza può essere anche più sensuale, e riguardare quindi la sfera dell’attrazione amorosa, così come può applicarsi all’ambito delle voglie estemporanee, che ci colgono sul più bello mentre siamo impegnati in un’attività quotidiana e non ci lasciano in pace fino a quando non ci è data la possibilità di livàrici lu pitìttu (toglierci il desiderio, nel senso di soddisfarlo).
In senso antifrastico, poi, il termine è utilizzato nel sintagma lu pitìttu, fa vèniri, con la dislocazione a sinistra del complemento oggetto, in riferimento a qualcosa che, in realtà, non fa venire proprio nessuna voglia di essere assaggiata o, più in generale, sperimentata nella nostra vita. Se, al contrario, la nostra smania fosse ormai incontenibile, in Sicilia potremmo dire stàiu (stè) sprucchiànnu di pitìttu, che in italiano corrisponderebbe alla frase ho un appetito così forte da star male.
Attenzione, però, a non confondere la storia di questa parola sicula con il pitìtto calabrese, che nei secoli ha dato il nome addirittura a un’antica casata araldica. In quel caso, il cognome deriva dal francese petit, corrispettivo di piccolo e trasformatosi nel dialetto locale in petìtto, probabilmente per dei motivi legati all’ignoto capostipite della famiglia.
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